29 Marzo 2024
Il PCT si regge su una struttura quasi obsoleta. E si vede!
Il PCT si regge su una struttura quasi obsoleta. E si vede!

Bello il processo civile telematico… Molto bello. Certo, se solo non fosse stato implementato ad minchiam (cit. Prof. Franco Scoglio), sarebbe anche funzionale e attivo al 100%, senza distinzioni, senza limitazioni, senza regole cambiate o specificate in corsa. Chi degli addetti ai lavori non ricorda lo stato d’ansia procurato dall’annuncio dell’introduzione di modifiche nel D.L. 90/2014 e dal suo continuo slittamento fino alla pubblicazione a ridosso del 30 giugno 2014? E chi non ricorda, ancora, il continuo variare delle regole tecniche in merito ai formati di files che è possibile allegare ad una busta telematica? Tutto ciò non ha fatto altro che contribuire all’aumento di indecisioni, incertezze e una velata, serpeggiante, avversione verso la rivoluzione telematica del processo civile – soprattutto da parte di quei Colleghi meno avvezzi all’uso del mezzo informatico.

Nel corso dei mesi che hanno portato alla fatidica scadenza del 30 giugno 2014 ho potuto constatare diverse storture del sistema PCT e come esso sia proprio nato male, già a partire dalla concezione strutturale di base. Tutte le considerazioni fatte in questo periodo mi hanno perciò indotto alla stesura di questo articolo che, fra il serio e il faceto, può ben essere definito come “lo stupidario del PCT“.

Iniziamo discutendo di una “grandiosa” invenzione tutta italiana: la PEC (Posta Elettronica Certificata). Non molti sanno che questa esiste solo in Italia! Anche la posta elettronica ordinaria, in realtà, in Italia è concepita in modo diverso rispetto – per esempio – a quanto accade negli USA. Si pensi all’opzione conosciuta come “ricevuta di ritorno”: in Gmail (prodotto americano) e in altri servizi e-mail extraeuropei tale opzione non esiste affatto. Essa, invece, è opzione che tutti i provider nostrani lasciano attiva di default. Probabilmente ciò è un retaggio della naturale diffidenza italica nei confronti del prossimo e, in particolare, del servizio postale tradizionale – e sì, in Italia si vive per “associazione di idee”.

Ho perso il conto delle volte in cui durante i convegni mi sono sentito porre quesiti esemplificativi del tipo “supponiamo che Tizio agisca cosi, io, pur rispettando le regole, non rischio di restare fregato?” C’è poco da fare: l’italiano medio diffida dei suoi concittadini (e del servizio postale, appunto) ed è per questa ragione che nel passato si è abusato delle raccomandate con ricevuta di ritorno – anche questo strumento non esistente all’estero o, comunque, considerato utile solo in casi di reale necessità.

Nel momento in cui abbiamo iniziato a traslocare verso un mondo digitale, dunque, la prima esigenza è stata quella di dare valore legale alla posta elettronica e con ciò hanno inventato un mostro degno della peggiore burocrazia italiana. La PEC altro non è che una comunissima e-mail, accompagnata da appositi certificati identificativi, che viaggia attraverso i server dedicati ad essa dalle aziende e dagli enti che lo Stato (oggi attraverso l’Agenzia per l’Italia Digitale – AgID) ha accreditato quali enti certificatori per la fornitura del servizio PEC e delle firme digitali.

Chi già la usa sa benissimo che all’invio di un messaggio via PEC generalmente corrisponde il ritorno di due messaggi, dei quali il primo ci dice che il messaggio è partito e il secondo che il messaggio è stato consegnato al destinatario dal suo provider PEC. ATTENZIONE, PERÒ! Ricevere il secondo messaggio non significa che il destinatario abbia effettivamente letto il contenuto, poiché ben potrebbe accadere che il messaggio resti nella casella della posta in arrivo senza che venga aperto. In un caso del genere si applica la logica giuridica tipica dell’invio a mezzo raccomandata tradizionale, ossia: ti ho comunicato quanto dovevo e tanto basta, a prescindere che tu legga o meno la comunicazione. Tant’è, la PEC è piaciuta ed è diventata il fulcro dell’infrastruttura e del protocollo per la nascita del PCT: infatti, se non si possiede un indirizzo PEC comunicato al proprio albo e iscritto al ReGIndE, l’avvocato non può accedere al magico mondo del PCT.

Tuttavia mi sono chiesto se si fosse potuto costruire un PCT che non prevedesse l’impiego della PEC. Dopo un po’di ricerca e di consultazioni con colleghi preparati in ambito informatico, ho dedotto che la risposta non poteva che essere affermativa. Infatti per come è strutturato il processo telematico, esso appare costruito su basi tecniche rozze e poco efficienti, se messe al cospetto di moderne tecnologie in grado di garantire la genuinità delle comunicazioni elettroniche e dell’identità dei soggetti che le generano.

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