19 Marzo 2024

8 anni di #PCT: a che punto è il processo civile telematico?

Oggi, 30 giugno 2022, festeggiamo l’ottavo compleanno del processo civile telematico (PCT) e mi sembra giunto il momento di fare un bilancio di questo periodo.

Ha reso più veloci i processi civili?

NO. Vi è un “concorso di colpa”: se da un lato il PCT presenta spesso inconvenienti tecnici di cui parlerò più avanti, dall’altro vi è un pesante fattore umano che coinvolge un po’ tutti gli attori di questo sistema: cancellieri, magistrati e loro ausiliari, clienti e – ovviamente – avvocati. Diciamolo e subito mettiamolo da parte: il personale degli uffici giudiziari è a corto di organico. Vero ma è anche vero che una parte di quel poco che c’è è ancorato alle vecchie routine d’ufficio, alle vecchie procedure e ha storto il naso sin da subito quando gli si è parato davanti “il nuovo processo”. Onore al merito, tuttavia, all’altra parte dei lavoratori degli uffici giudiziari che – al contrario – si sono impegnati per far funzionare al meglio le cancellerie con le nuove metodologie, poiché senza queste persone il PCT probabilmente sarebbe già stato abolito. Non me ne vogliano ma per una pura coincidenza, i più giovani sono quelli che meglio si sono adeguati alle nuove procedure di cancelleria.

Gli avvocati hanno ben accolto il PCT?

Dipende. Anche in questo caso si potrebbe fare il tipico ragionamento per cui “i più giovani sono abituati all’uso dell’informatica e lo hanno recepito bene, mentre i più anziani hanno opposto un netto rifiuto”, però la realtà è molto diversa e ciascun avvocato ha accolto il PCT in modo estremamente soggettivo. D’altronde un vecchio adagio afferma che “ogni testa è tribunale” ed è innegabile che ciascun avvocato si sia approcciato al PCT in modo del tutto personale:
  1. l’avvocato che “va bene, da oggi si lavora con il PCT, vediamo come funziona“;
  2. l’avvocato che “ma non era meglio una volta, quando per il deposito si andava in cancelleria?“;
  3. l’avvocato che “provo ad adeguarmi: chiamo un Collega esperto del PCT e prendo appunti con carta e penna circa le operazioni da eseguire per depositare una memoria“;
  4. l’avvocato che “ho studiato per fare l’avvocato, non l’informatico“.
Di tutti i precedenti approcci, il quarto è quello che negli ultimi otto anni mi ha provocato forti disturbi gastrici e diversi facepalm sonori, così forti che li hanno avvertiti dall’altra sponda dello Stretto di Messina. Un approccio intollerabile perché evidenzia il radicale rifiuto per l’innovazione, infarcito con un pizzico di superbia e una spruzzata di sindrome “Dunning-Kruger“: l’introduzione del PCT non ha mai obbligato gli avvocati a iscriversi a un corso di laurea in Informatica ma richiedeva, sostanzialmente, che gli stessi prendessero un po’ di dimestichezza con la nuova procedura di deposito telematico. Tutto qua. Nel 2014 già ci si stava abituando a scrivere scemenze autocelebrative e pubblicare foto da strafighi su Facebook. Bravissimi a fare tutto ciò ma incredibilmente incapaci nell’eseguire una serie di operazioni pressoché meccaniche: clicca qui, seleziona i file, firma tutto ma solo il necessario, crea busta, invia il deposito. Eppure… Ho visto cose che voi umani... Ho visto Colleghi firmare digitalmente le fatture inviate dai clienti perché “le firmo per sicurezza, perché ho paura di sbagliare“. Ho visto Colleghi stampare la procura alle liti firmata digitalmente dal cliente per poi firmarla, scansionarla e firmarla digitalmente. Ho visto Colleghi impazzire perché “come devo preparare la Nota d’Iscrizione a Ruolo (la NIR)? Dove la metto?” Ho visto Colleghi che volevano depositare file non ammessi con la pretesa di farli passare mettendoli in un archivio ZIP. Ho visto Colleghi che hanno acquistato Microsoft Office perché “i documenti scritti con altri software non sono ammessi dal sistema.” Ho visto Colleghi scaricare la copia informatica di un provvedimento del giudice per poi attestarne la conformità invece che scaricare direttamente il duplicato informatico. Ho visto Colleghi depositare una copia di cortesia cartacea in un fascicolo nato telematicamente già dalle notifiche (e qui ho avvertito un terribile disturbo nella Forza). Ho visto Colleghi con la firma digitale scaduta che hanno fatto firmare digitalmente l’atto al proprio collega di studio che, però, non era inserito in co-difesa… Ho visto Colleghi che preparano i nomi dei file con cose come “Memoria ex art. 183 comma 2 c.p.c., Proc. n. 1234/2020, Caio C. contro Mevia M., con contestuale autorizzazione al deposito di supporto multimediale.docx.pdf.p7m” Ho visto Colleghi attestare la conformità delle ricevute XML delle notifiche telematiche. E proprio ieri, che un Collega mi ha chiamato per assistenza, dopo aver spiegato come convertire il file DOCX in PDF e firmarlo con il formato PaDES, mi sono sentito dire:
No, Matteo, guarda che ti stai confondendo: nel PCT bisogna firmare i file in CaDES, con il P7M, non con PaDES. Quello è il Processo Tributario… o l’Amministrativo, non ricordo, però abbiamo sempre firmato con il P7M…
Tuttavia qui posso anche giustificare parzialmente il Collega: l’avvento degli altri processi telematici nel corso degli anni è stato deleterio perché fatto senza il benché minimo spirito di coordinamento con il PCT o con il PAT (Processo Amministrativo Telematico). Abbiamo persino creato una pagina facebook (“Piattaforma Unica per i processi telematici“) per raccogliere la voce dei Colleghi scocciati dalla moltitudine delle procedure e delle peculiarità che ogni processo telematico impone. Una selva disordinata che non ha fatto altro che alimentare la diffidenza verso i processi telematici – tutti, non solo il civile.

Dunque è colpa del legislatore?

In parte. Diciamo che la principale colpa del legislatore è stata ordinare una rivoluzione senza controllarla da vicino. Facile dire “bene, estendiamo il processo civile telematico a tutto il territorio nazionale” ma difficile è stato realizzarlo bene e in maniera ordinata. Tralasciamo per un momento l’aspetto squisitamente tecnologico: il legislatore ha seguito la sperimentazione da lontano, quasi del tutto indifferente agli sviluppi, e la prova sta nel fatto che si è mantenuto il sistema dei depositi basati su PEC. La distanza del legislatore, inoltre, la ravvisiamo nel tentativo (tipicamente all’italiana) di far incrociare le rette parallele con la speranza che tutto funzioni a dovere; nel PCT, pertanto, ci siamo ritrovati un sistema informatico che si è dovuto adeguare alla bell’e meglio al preesistente codice di rito, mentre la soluzione più logica sarebbe stata lo studio della trasformazione del codice di rito in armonia con la sperimentazione del processo telematico. Avremmo evitato diverse difficoltà, molti intoppi e un crescente odio per la piattaforma dei depositi digitali.

Il PCT usa una tecnologia adeguata?

NO! Avrei dovuto scriverlo con un carattere più grande e magari lampeggiante. Il PCT è andato a regime con una tecnologia sostanzialmente vecchia e inadeguata: il meccanismo dei depositi basato sullo scambio delle PEC, una in invio e tre in ricezione, non può che essere il frutto della mente di un burocrate o di un tecnocrate folle o, semplicemente, di un manipolo di ingegneri informatici ministeriali che non si sono avventurati nel proporre investimenti finalizzati alla realizzazione di un’infrastruttura al passo coi tempi, resiliente (perdonatemi per questo termine), sicuro, ridondante e centralizzato. Le responsabilità tecniche per il buon esito di un deposito telematico sono state ripartite tra il gestore della PEC dell’utente e il gestore della PEC ministeriale; poi, in maniera più granulare, i messaggi PEC con i depositi telematici passano attraverso:
  • il server in uscita del mio gestore PEC – il quale mi rimanda una PEC per l’accettazione e una PEC per l’avvenuta consegna;
  • il server centrale ministeriale per i controlli automatici – laddove si genera la PEC con il responso dei controlli (la famosa terza PEC);
  • il server localizzato per ciascun tribunale – laddove spetta al cancelliere accettare il deposito e inviare l’ultima PEC al mittente del deposito.
In questi otto anni mi sono sempre chiesto il perché di questo meccanismo? La risposta “per garantire autenticità e genuinità al deposito“, quasi nel 2023, non è più accettabile poiché disponiamo di tecnologie che offrono la stessa funzione senza costringere a questi salti mortali – e in verità le stesse tecnologie le avevamo anche nel 2014. Un moderno sistema per i depositi telematici sarebbe dovuto essere centralizzato, flessibile e meno formale. Si sarebbe potuto offrire una piattaforma online con un modulo da riempire con le generalità delle parti, l’oggetto della causa, un’area testuale in cui esporre le ragioni in fatto e diritto, un’area testuale in cui inserire le richieste istruttorie e il petitum, un’area in cui eseguire l’upload degli allegati; l’avvocato sarebbe stato riconosciuto attraverso un sistema di autenticazione approvato da AgID (magari lo SPiD?), così non vi sarebbe stata la necessità di firmare gli atti poiché il sistema avrebbe automaticamente associato gli upload a quello specifico utente, senza nemmeno avere l’esigenza di attestare la conformità di certi allegati; facendo a meno dell’uso della firma digitale, inoltre, si sarebbe fortemente ridotto il problema della scadenza dei certificati delle firme, poiché un ipotetico sistema come quello che sto esemplificando, provvederebbe anche alla conservazione digitale sostitutiva (il sistema attuale non lo fa e obbliga gli avvocati a provvedere ciascun per se). Il sistema telematico ideale provvederebbe persino alle notifiche alle controparti e agevolerebbe notevolmente il lavoro delle cancellerie perennemente sotto organico, poiché al collaboratore di cancelleria verrebbe assegnata più una funzione di supervisione che di operatore informatico – per esempio, l’accettazione del deposito sarebbe automatica e contestuale all’invio del modulo. A quel punto al collaboratore di cancelleria non resterebbe altro che fare solo un controllo generico sul deposito ed evitare casi che potrebbero rientrare nella serie “Ho visto cose…“, quali il rifiuto di depositi telematici che si sarebbero potuti correggere con il semplice di spirito di collaborazione con l’avvocato. Il “lato oscuro”. Secondo me bisogna parlarne. Il PCT è stata la giustificazione per far nascere un vero e proprio indotto, un mercato di strumenti che sono stati presentati agli avvocati come INDISPENSABILI per l’uso del PCT. Sono stati realizzati gestionali costosi che sono stati presentati come prodotti scalabili, pensati tanto per il piccolo studio legale con un solo avvocato quanto per i grossi studi associati, i quali pur tuttavia si sono rivelati come strumenti spesso complessi, macchinosi, ostici e, perciò, principale causa di smarrimento per gli avvocati meno avvezzi all’uso di questi strumenti. Con la pretesa di porsi come interfaccia fra POLISWEB, propongono la magia della sincronizzazione tra i fascicoli digitali locali e quelli conservati nei server ministeriali, salvo poi creare confusione nel momento in cui bisogna selezionare i file da allegare a una nuova busta telematica. Basti pensare che uno di questi (del quale non farò menzione nemmeno sotto minaccia armata) impone(va, ora non so) che un file fosse dapprima caricato nel fascicolo gestito dall’applicativo e solo dopo poteva essere selezionato come allegato per il deposito telematico. Una soluzione logica secondo un programmatore (che ha ricevuto certe specifiche per la realizzazione del software) ma non lo è per un avvocato, per il quale meno click devono farsi e meglio è. Col passare del tempo ho iniziato a pensare che facciano questi gestionali così macchinosi, così da creare la necessità di rivolgersi al servizio clienti e tentare di vendere pacchetti personalizzati di assistenza. Questo, comunque, è soltanto un mio pensiero un po’ maligno,
Giulio Andreotti
“A pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca” (G. Andreotti)

Le invenzioni che hanno scosso gli avvocati.

Sono tante ma due su tutte hanno fatto tremare i polsi agli avvocati. Per fortuna oggi non è più un obbligo ma appena dopo l’introduzione del PCT, qualcuno ebbe la magnifica idea di imporre il calcolo dell’HASH dei file che si desiderava notificare a mezzo PEC. Apriti cielo! Decine di ore di convegni e seminari su quest’obbligo normativo che impone di apprendere una nuova procedura informatica in più. Fortunatamente, poi, il legislatore ha fatto un passo indietro e l’HASH è solo un brutto ricordo. La seconda delle due invenzioni terribili è questa (e non aggiungo altro): A buon intenditore poche parole: la coccardina posta quale emblema che indica la presenza di una firma digitale in un atto estratto dal fascicolo digitale è l’equivalente di un vaso di Pandora. Si salvi chi può quando un avvocato scopre che in un PDF (firmato magari con PaDES) manca la benedetta coccardina. E se nel 2022 ancora riteniamo che la prova dell’esistenza di una firma digitale sia la presenza della coccardina, allora significa che tutto il sistema è inceppato e non funziona a dovere. Auguri a tutti!

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